Quadro giuridico relativo alla libertà religiosa ed effettiva applicazione
I musulmani sunniti rappresentano circa l’84,7–89,7 percento della popolazione afghana. La restante parte è composta prevalentemente da musulmani sciiti (tra il 10 e il 15 percento), in gran parte appartenenti all’etnia hazara. La precedente Costituzione del Paese riconosceva ufficialmente 14 gruppi etnici, tra cui i pashtun, i tagichi e gli hazara. I pashtun costituiscono il gruppo etnico più numeroso (stimato al 42 percento della popolazione), seguiti da tagichi (circa 27 percento), hazara (9 percento), uzbeki (9 percento), turkmeni (3 percento), baluchi (2 percento) e altri gruppi, che rappresentano complessivamente l’8 percento[1].
I talebani sono tornati al potere nel 2021, oltre vent’anni dopo la loro destituzione. La conseguente instaurazione di un emirato islamico ha profondamente trasformato il quadro giuridico del Paese. La Costituzione della Repubblica dell’Afghanistan del 2004[2] non è più in vigore sotto l’attuale regime talebano. Sebbene le autorità de facto abbiano più volte annunciato l’intenzione di redigere e adottare una nuova costituzione, a oggi non è stato presentato alcun testo ufficiale.
Durante il primo emirato (1996–2001), un consiglio di ulema redasse una Costituzione volta a formalizzare l’istituzione di un emirato islamico, ma tale Carta non fu mai approvata. Il testo si basava in larga misura sulla Costituzione del 1964, promulgata sotto l’ex re Mohammed Zahir Shah, che prevedeva una monarchia costituzionale, elezioni democratiche, separazione dei poteri e una Dichiarazione dei Diritti a tutela dei cittadini contro gli abusi del potere statale — elementi tutti rigettati dai talebani[3].
Sebbene nel settembre 2021 i talebani abbiano dichiarato l’intenzione di applicare temporaneamente la vecchia carta costituzionale, nella pratica ciò non si è realizzato[4].
Nonostante le iniziali promesse di inclusività, il regime talebano ha assunto una configurazione sempre più esclusiva, favorendo i membri pashtun del sud affiliati al movimento, a scapito della rappresentanza degli altri gruppi etnici. Il Leader Supremo, l’Emiro Haibatullah Akhundzada, ha ulteriormente accentrato il potere nelle proprie mani[5].
Nel maggio 2022, i talebani hanno pubblicato un manifesto di 312 pagine, intitolato Al Imarat al Islamiah wa Nizamuha («L’Emirato Islamico e il suo Ordine»)[6], redatto dal presidente della Corte Suprema talebana, Abdul Hakim Haqqani. Il documento si fonda sulla scuola giuridica islamica hanafita, seguita dalla maggioranza sunnita del Paese. Questo orientamento ha avuto conseguenze significative per la minoranza sciita, rappresentando un arretramento rispetto alla Costituzione del 2004, che — per la prima volta nella storia del Paese — aveva riconosciuto un ruolo, seppur limitato, alla scuola giuridica sciita jaʿfarita[7].
Dal punto di vista giuridico, i talebani hanno mostrato scarso, se non nullo, rispetto per il principio del giusto processo. Nomine e decisioni rilevanti in ambito amministrativo, legislativo e giudiziario sono state adottate sotto l’autorità del leader supremo, l’Emiro, senza alcuna considerazione per il principio della separazione dei poteri. Numerose disposizioni sono introdotte attraverso decreti che non vengono adeguatamente pubblicizzati e, in alcuni casi, è sufficiente una dichiarazione orale di un leader talebano affinché un provvedimento acquisti valore esecutivo. Dall’agosto 2021, il regime ha emanato circa un centinaio di editti e decreti, che hanno significativamente ristretto i diritti umani, con un impatto particolarmente grave per le donne e le minoranze religiose[8].
Un’ulteriore criticità è rappresentata dal ricorso frequente a forme di giustizia sommaria da parte dei funzionari locali, talvolta in assenza di un processo regolare. Le sanzioni comminate possono variare dall’umiliazione pubblica alla pena corporale; anche reati relativamente minori, come il furto, possono comportare l’amputazione degli arti. I reati ritenuti più gravi, come l’apostasia e la blasfemia, possono essere puniti con la pena capitale. Ad esempio, nel febbraio 2022, una giovane donna e un uomo sono stati lapidati per presunto adulterio nella provincia nordorientale del Badakhshan, secondo quanto riferito da fonti locali e da un funzionario talebano[9].
La pena di morte per apostasia e blasfemia rimane in vigore, mentre il regime ha reintrodotto e applicato forme estreme di punizione anche per reati minori, aggravando il clima di repressione e insicurezza giuridica[10].
I talebani hanno inoltre avviato una rapida ristrutturazione del sistema giudiziario afghano. Una delle modifiche più rilevanti è stata la soppressione dell’Ufficio del Procuratore Generale, avvenuta nel luglio 2023, che ha di fatto eliminato il ruolo del pubblico ministero. In seguito a tale soppressione, i giudici si trovano ora a gestire in autonomia tutte le fasi del procedimento legale, dall’assegnazione del caso alla pronuncia della sentenza, senza il supporto investigativo tradizionalmente fornito dalla procura[11]. L’assenza di una costituzione scritta e di codici legali formalizzati accentua il rischio di interpretazioni arbitrarie della legge e incrementa la possibilità di errori giudiziari[12].
Il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (MPVPV) rappresenta l’autorità principale preposta all’emissione della maggior parte delle direttive. Il ministero conta circa 5.000 agenti[13] ed esercita le funzioni di una polizia islamista nota per la durezza dei suoi metodi. Sciolto nel 2001, è stato ricostituito nel settembre 2021, assumendo anche le competenze del soppresso Ministero per gli Affari Femminili. Tramite le proprie direttive, il MPVPV impone norme considerate obbligatorie per tutti i cittadini afghani, in quanto musulmani, o — nel caso di non musulmani — in quanto sudditi di uno Stato islamico[14].
L’8 novembre 2023 è stata approvata la Legge sulla trattazione dei reclami, che definisce le responsabilità del Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio nella gestione delle denunce contro i funzionari pubblici. La normativa stabilisce che tutte le istituzioni statali, incluse le corti, siano tenute a rispondere formalmente alle richieste del ministero. Nei casi più gravi o non risolti, quest’ultimo ha facoltà di deferire la questione direttamente alla leadership talebana[15].
Nell’agosto 2024 è stata inoltre promulgata la Legge sulla promozione della virtù e la prevenzione del vizio, articolata in un preambolo, quattro sezioni e 35 articoli. L’articolo 6 paragrafo 1 conferisce al Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio e la trattazione dei reclami piena autorità in materia[16]. L’articolo 23 stabilisce che: «Un agente è tenuto a impedire che le minoranze che vivono sotto un governo islamico e i richiedenti asilo commettano apertamente atti riprovevoli»[17]. Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui Diritti Umani in Afghanistan, ha osservato che la legge non solo impone pratiche religiose ai musulmani, ma introduce anche restrizioni alla libertà religiosa dei non musulmani. Tra queste, il divieto di esporre crocifissi o altri simboli «non islamici», nonché il divieto di celebrare festività prive di fondamento nella tradizione islamica[18].
L’articolo 13 paragrafo 3 della Legge sulla promozione della virtù e la prevenzione del vizio prevede inoltre che, oltre a coprire integralmente il corpo e il volto, la voce di una donna «in un canto, un inno o una recitazione ad alta voce in pubblico» debba essere celata, vietando di fatto la possibilità per le donne di farsi vedere o sentire in pubblico[19].
A partire dall’agosto 2021, i talebani hanno emanato numerosi decreti volti a limitare gravemente i diritti delle donne, inclusi la libertà di movimento, l’abbigliamento, la partecipazione ad attività sportive, l’accesso al lavoro, all’istruzione e ai servizi sanitari[20]. Nel maggio 2022, le autorità de facto hanno introdotto il decreto sull’hijab, che impone a donne e ragazze di coprirsi completamente in pubblico. Tale decreto è stato applicato con particolare rigore, soprattutto nella prima metà del 2024, attraverso un incremento dei controlli e un’intensificazione delle ispezioni[21].
Le donne sono state escluse dalla maggior parte dei settori della forza lavoro[22] e hanno subito gravi restrizioni, in particolare in ambito educativo. Nel marzo 2022, i talebani hanno decretato la chiusura delle scuole femminili oltre il sesto anno di studi. Nel dicembre dello stesso anno, il Ministro dell’Istruzione Superiore ha sospeso ufficialmente l’accesso all’università per le studentesse, fino a nuovo ordine[23]. Nel febbraio 2023, il Consiglio Medico dell’Afghanistan ha vietato alle laureate in medicina di sostenere gli esami finali. Più recentemente, nel dicembre 2024, il Vice Ministro della Sanità Pubblica ha impartito una direttiva verbale a tutte le istituzioni mediche, ordinando di vietare l’accesso agli studi a donne e ragazze[24].
Ulteriori restrizioni hanno riguardato anche le pratiche religiose femminili. Nell’aprile 2023, il Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (DPVPV) — un organo locale attivo a livello provinciale e distrettuale, sotto l’autorità del Ministero omonimo (MPVPV) — ha trasmesso verbalmente alla polizia di Kandahar l’ordine di vietare alle donne di recarsi in visita ai cimiteri e ai santuari, definendo tali pratiche «non islamiche»[25].
In sguito alla loro esclusione dall’istruzione formale, migliaia di ragazze afghane sono state costrette a frequentare scuole religiose (madrase) come unica alternativa possibile. Secondo le testimonianze di alcune studentesse, i programmi didattici di queste istituzioni spesso promuovono ideologie estremiste e pongono una marcata enfasi sui ruoli domestici, insegnando alle ragazze a crescere i propri figli come combattenti per la jihad (mujahidin) e a «servire» i propri mariti[26].
Attualmente, il Ministero dell’Istruzione talebano supervisiona oltre 21.000 scuole religiose, comprese quelle jihadiste, un numero quattro volte superiore rispetto a quello registrato sotto il precedente governo afghano e nettamente maggiore rispetto alle 18.000 scuole pubbliche e private[27]. L’espansione delle madrase, alcune delle quali promuovono attivamente la jihad militante, ha trasformato in modo profondo il sistema educativo afghano, sollevando preoccupazioni sulle implicazioni a lungo termine per lo sviluppo nazionale e sul rischio di favorire processi di radicalizzazione[28]. Queste madrase non svolgono unicamente una funzione educativa, ma agiscono come centri di indottrinamento e potenziali punti di reclutamento per gruppi estremisti[29].
Anche la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha espresso particolare preoccupazione per l’impunità con cui le autorità de facto del Paese sembrano commettere violazioni dei diritti umani. Tra il 1° ottobre e il 31 dicembre 2024, sono stati documentati casi di punizioni corporali giudiziarie, che hanno colpito almeno 194 persone, tra cui 150 uomini, 39 donne, e cinque minori: quattro ragazzi e una ragazza[30].
Nel suo ultimo rapporto sull’Afghanistan, pubblicato il 21 febbraio 2025, il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha sottolineato l’urgente necessità di porre fine all’applicazione delle punizioni corporali ed ha espresso profonda preoccupazione per il ricorso continuo alla pena di morte, in particolare nei casi che coinvolgono individui minorenni al momento del presunto reato[31].
Dall’ascesa al potere dei talebani nell’agosto 2021, almeno cinque persone sono state giustiziate pubblicamente in seguito a sentenze emesse dal sistema giudiziario de facto e approvate dal leader talebano[32].
Il Servizio per i Diritti Umani dell’UNAMA ha documentato numerosi episodi di aggressioni fisiche e repressione religiosa da parte del Dipartimento per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (DPVPV), indirizzati contro individui le cui credenze religiose divergono da quelle imposte dalle autorità al potere[33].
Il rapporto dell’UNAMA, intitolato «De Facto Authorities’ Moral Oversight in Afghanistan: Impacts on Human Rights» («La supervisione morale delle autorità de facto in Afghanistan: impatti sui diritti umani», maggio 2024), include in allegato le risposte ufficiali del Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio e la trattazione dei reclami dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Con riferimento alla regolamentazione delle pratiche religiose, le autorità de facto dichiarano che «ogni disposizione del sistema islamico della Shariʿa e della politica non è priva di saggezza; i musulmani devono osservarle, e il regime al potere deve adottare tutte le misure necessarie per garantirne l’attuazione»[34].
In merito al divieto di celebrazioni non islamiche, il documento riporta quanto segue: «L’Islam è una religione completa e onnicomprensiva che fornisce ai suoi seguaci linee guida e precetti per ogni ambito della vita. Ci sono due Eid [che possono essere celebrati nell’Islam], ed è una violazione della libertà celebrare altri giorni [festivi]; pertanto, possiamo affermare che la celebrazione di quelle ricorrenze da voi menzionate è proibita; di conseguenza, anche gli aspetti proposti sono proibiti, e questo è un principio giuridico accettato»[35].
I talebani hanno inoltre vietato la musica. Come affermato dal portavoce Zabihullah Mujahid nel 2021: «La musica è proibita nell’Islam»[36]. Nel gennaio 2023, il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha ribadito il divieto, estendendolo anche alla poesia in forma metrica musicale[37]. Successivamente, l’11 giugno 2023, il ministero ha emesso un’ulteriore direttiva che vieta la riproduzione musicale durante matrimoni e altre cerimonie, ordinando alle sale per ricevimenti di garantire il rispetto della norma. L’UNAMA ha documentato diversi episodi riconducibili all’applicazione del divieto, tra cui maltrattamenti, arresti arbitrari e detenzioni di individui accusati di aver violato le disposizioni in materia[38].
Il panorama mediatico dell’Afghanistan ha subito un’intensa repressione, con giornalisti vittime di arresti arbitrari, minacce e violenze. Numerose testate sono state costrette alla chiusura o a operare sotto una rigida censura, determinando una marcata contrazione della libertà di stampa. Il Centro dei Giornalisti Afghani ha registrato, nel corso del 2024, 181 violazioni dei diritti dei media, inclusa la chiusura di 18 organi di stampa e la detenzione di 50 giornalisti, a seguito dell’introduzione di nuove restrizioni[39].
Nel gennaio 2025, il Procuratore della corte penale internazionale (CPI), Karim Khan, ha richiesto l’emissione di mandati di arresto nei confronti del leader supremo talebano, Haibatullah Akhundzada, e del Giudice Supremo dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, Abdul Hakim Haqqani. I due sono accusati di crimini contro l’umanità, in particolare per la persecuzione sistematica delle donne e delle ragazze in Afghanistan[40].
Episodi rilevanti e sviluppi
Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre 22,9 milioni dei circa 46 milioni di abitanti dell’Afghanistan necessitano di assistenza umanitaria[41].
Sebbene, a partire dalla presa del potere da parte dei talebani il 15 agosto 2021, il numero complessivo di vittime civili sia sensibilmente diminuito rispetto agli anni precedenti, la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) continua a segnalare un numero significativo di danni alla popolazione civile, dovuti principalmente ad attacchi deliberati con ordigni esplosivi improvvisati (improvised explosive devices, IED).
Tra l’agosto 2021 e il maggio 2023, l’UNAMA ha documentato 3.774 vittime civili, di cui 1.095 morti e 2.679 feriti. La maggior parte di esse è riconducibile ad attacchi indiscriminati in luoghi affollati (2.814 vittime, tra cui 701 morti e 2.113 feriti), come luoghi di culto, scuole e mercati[42]. Tra le vittime si contano 233 donne (92 uccise e 141 ferite) e 866 bambini (287 uccisi e 579 feriti). Altre cause rilevanti comprendono l’esplosione di ordigni inesplosi (639 vittime) e gli omicidi mirati (148 vittime) [43].
In un rapporto pubblicato nell’agosto 2024, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, ha espresso profonda preoccupazione per le continue violazioni della libertà religiosa e dei diritti culturali delle minoranze da parte delle autorità de facto. Tra le misure segnalate figurano il divieto di celebrazioni religiose, la rimozione dalle biblioteche di testi legati allo Sciismo e il divieto di tradurre opere scientifiche in lingua uzbeka e turca[44].
Un rapporto redatto dall’organizzazione afghana per i diritti umani Rawadari denuncia l’esistenza di una discriminazione sistematica perpetrata dai talebani nei confronti delle minoranze etniche e religiose. Il documento evidenzia pratiche discriminatorie nei servizi pubblici, nella distribuzione delle risorse, nell’accesso all’occupazione e agli aiuti umanitari, che colpiscono in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili. Inoltre, secondo Rawadari, le autorità de facto hanno represso la diversità religiosa, imposto severe restrizioni alla libertà di religione e, in alcuni casi, costretto le minoranze religiose a convertirsi[45].
Tra i gruppi maggiormente colpiti figurano gli hazara, comunità a prevalente composizione sciita e terzo gruppo etnico per dimensioni in Afghanistan, dopo i pashtun e i tagichi. Già oggetto di persecuzioni durante il precedente regime talebano, gli hazara hanno continuato a subire gravi attacchi nel periodo di riferimento, tanto da parte dei talebani quanto dello Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP) [46].
La comunità sciita hazara continua a costituire il principale bersaglio degli attacchi perpetrati dallo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP) contro le minoranze religiose in Afghanistan. Nonostante l’indebolimento in termini di leadership e controllo territoriale, l’ISKP rappresenta ancora una minaccia significativa, alimentando le tensioni settarie e colpendo con frequenza gruppi vulnerabili della popolazione[47].
Tra ottobre e novembre 2023, due attentati hanno colpito la comunità hazara nel quartiere di Dasht-e-Barchi, a Kabul, zona a maggioranza sciita. Entrambi gli episodi, avvenuti a pochi giorni di distanza, sono stati rivendicati dall’ISKP[48]. Il primo, avvenuto il 26 ottobre 2023, ha avuto luogo in una palestra di pugilato, dove un ordigno esplosivo ha causato la morte di quattro persone[49]. Il secondo, verificatosi il 7 novembre 2023, ha coinvolto un minibus con passeggeri hazara sciiti: l’esplosione ha provocato sette vittime e almeno venti feriti[50].
Due ulteriori attacchi si sono registrati nel medesimo quartiere nel gennaio 2024[51]. Il 6 gennaio, un altro minibus è stato colpito da un ordigno, causando cinque morti e quindici feriti. L’11 gennaio, un attacco con granata nei pressi di un centro commerciale ha provocato due vittime e dodici feriti[52]. L’ISKP ha rivendicato l’attentato del 6 gennaio, mentre non è giunta alcuna rivendicazione per quello dell’11 gennaio; tuttavia, secondo le autorità locali e analisti internazionali, il gruppo è considerato il principale sospettato.
In un comunicato, il portavoce dell’ISKP, Abu Hudhayfah Al-Ansari, ha dichiarato che tali attacchi rientrano nella nuova campagna globale del gruppo, denominata «Uccideteli ovunque li troviate», ispirata a un versetto della Sura Al-Baqara[53].
La campagna condotta dallo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP) ha incluso l’attentato suicida del 13 ottobre 2023 presso la moschea sciita Imam Zaman a Pul-e-Khumri, capoluogo della provincia settentrionale di Baghlan. L’attacco, avvenuto durante la preghiera del venerdì[54], ha causato la morte di sette fedeli. Un ulteriore attentato rivendicato dal gruppo ha colpito, il 29 aprile 2024, una moschea sciita nel distretto di Guzara, a Herat, provocando sei vittime[55].
L’ISKP è ritenuto responsabile anche di altri due attacchi, nonostante non li abbia formalmente rivendicati. Il 20 aprile 2024, un ordigno esplosivo è stato fatto detonare a bordo di un’automobile nel quartiere di Kot-e-Sangi, a Kabul, uccidendo il conducente e ferendo altre tre persone[56]. Analogamente, l’11 agosto 2024, un’esplosione su un minibus a Dasht-e-Barchi ha causato un morto e undici feriti[57].
Il gruppo ha invece rivendicato l’attacco del 12 settembre 2024, condotto contro abitanti dei villaggi delle province di Ghor e Daykundi, di ritorno da un pellegrinaggio a Karbala (Iraq). L’imboscata ha provocato 14 morti e sei feriti[58].
Parallelamente agli attacchi dello Stato Islamico, la comunità hazara continua a subire forme strutturali di discriminazione da parte del regime talebano. Tra queste, una delle più gravi è rappresentata dagli sgomberi forzati[59]. A metà del 2024, i talebani hanno intimato agli abitanti hazara del quartiere Nowabad, nella città di Ghazni, di presentare la documentazione attestante la proprietà dei terreni. In assenza di tali documenti — nonostante l’acquisto regolare dei lotti da parte dei residenti — è stato disposto lo sfratto, giustificato dalle autorità con il presunto carattere pubblico delle aree interessate[60].
Inoltre, dal ritorno al potere dei talebani, la presenza degli hazara nelle istituzioni pubbliche si è drasticamente ridotta. Molti membri della comunità sono stati rimossi da incarichi ufficiali e il loro accesso alle risorse statali risulta fortemente limitato[61].
Nel febbraio 2023, le autorità talebane del distretto di Nusay, nella provincia afghana del Badakhshan, hanno emanato un decreto che vieta i matrimoni tra musulmani sciiti e sunniti, giustificando tale decisione su basi religiose e ideologiche[62]. Nel mese di aprile, le autorità hanno dichiarato il 21 aprile 2023 giorno ufficiale di celebrazione dell’Eid al-Fitr, sebbene secondo il calendario sciita quella data coincidesse con l’ultimo giorno del Ramadan. Nella provincia di Daikundi, membri della comunità sciita sono stati costretti a interrompere il digiuno presso posti di blocco della polizia; almeno 25 persone sarebbero state picchiate per essersi rifiutate di obbedire[63].
Nel luglio 2023, il Consiglio degli Studiosi Sciiti dell’Afghanistan ha diffuso una dichiarazione invitando i fedeli a limitare le commemorazioni del mese di Muharram, il primo mese del calendario islamico. La raccomandazione è stata formulata in risposta alle restrizioni imposte dai talebani. Prima del loro ritorno al potere nell’agosto 2021, le comunità sciite afghane potevano commemorare liberamente il Muharram, organizzando imponenti processioni con canti e riti religiosi. Le nuove limitazioni hanno suscitato l’opposizione dei leader sciiti, che le considerano una violazione delle proprie pratiche religiose[64].
Nel dicembre 2023, il Ministero dell’istruzione superiore talebano ha ordinato a università e istituti privati di istruzione superiore di rimuovere dalle biblioteche tutti i volumi ritenuti «contrari alla giurisprudenza hanafita, politici o lesivi della fede». A sostegno della direttiva, il ministro Neda Mohammad Nadim ha dichiarato: «In Afghanistan non esistono [alter] correnti religiose: l’intero Paese aderisce alla giurisprudenza hanafita»[65].
Successivamente, nel giugno 2024, la Direzione dell’istruzione dei talebani nella provincia di Bamyan ha ordinato la rimozione dei testi di giurisprudenza sciita jaʿfarita dai programmi scolastici, annunciando l’intenzione di elaborare e distribuire nuovi manuali che integrassero le tradizioni sunnite e sciite. Tuttavia, a gennaio 2025, tali materiali non risultano ancora introdotti[66].
Nel periodo di riferimento, anche i musulmani sufi sono stati oggetto di attacchi. Il sufismo, che per secoli ha svolto un ruolo spirituale rilevante in Afghanistan, si contrappone oggi alla visione religiosa dei talebani e dell’ISKP. Il 22 novembre 2024, un attacco armato ha colpito il santuario di Sayed Padshah Agha, nel distretto di Nahrin (provincia di Baghlan), durante una sessione notturna di Zikr (preghiera devozionale). Uomini armati non identificati hanno aperto il fuoco sui fedeli sufi, uccidendo almeno dieci persone. L’attentato è stato rivendicato dallo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP) [67]. Esso si inserisce in una più ampia campagna di violenza contro i sufi, preceduta da tre brutali attacchi avvenuti nel 2022, che avevano causato oltre un centinaio di vittime[68].
La comunità ahmadi versa in condizioni altrettanto critiche. Già perseguitata sotto il precedente regime talebano, essa è considerata blasfema e non riconosciuta come musulmana. Prima dell’agosto 2021, si stimava che in Afghanistan vi fossero circa 450 ahmadi, ma la consistenza attuale della comunità è sconosciuta. Secondo l’Ufficio Stampa Ahmadiyya, alcuni membri sarebbero stati arrestati dalle autorità talebane. Il Califfo Ahmadi Hazrat Mirza Masroor ha dichiarato: «I musulmani ahmadi in Afghanistan stanno attraversando enormi difficoltà e alcuni di loro sono persino stati arrestati»[69]. In un’altra dichiarazione, ha aggiunto: «Gli estremisti come i talebani e altri stanno infangando il nome dell’Islam e sono già caduti sotto il castigo di Dio»[70].
Il Cristianesimo è generalmente percepito in Afghanistan come una religione occidentale ed estranea all’identità nazionale. Anche prima della presa del potere da parte dei talebani, i cristiani afghani denunciavano l’ostilità dell’opinione pubblica — espressa sui social media e in altri contesti — nei confronti dei convertiti. Il culto cristiano si svolgeva solitamente in forma privata, individualmente o in piccoli gruppi riuniti in case[71].
Dopo l’instaurazione dell’Emirato Islamico, i talebani hanno dichiarato che le minoranze religiose sarebbero state protette, ma non hanno fatto alcun riferimento alla comunità cristiana. Al contrario, hanno affermato pubblicamente: «In Afghanistan non ci sono cristiani. Una minoranza cristiana non è mai stata conosciuta né ufficialmente registrata qui»[72].
Secondo alcune fonti, i talebani avrebbero offerto ricompense in denaro a chi segnalasse la presenza di cristiani afghani. Questo sviluppo ha ulteriormente aggravato i rischi già elevati per coloro che sono costretti a praticare la propria fede in clandestinità[73]. Per la prima volta in un secolo, l’Afghanistan è rimasto privo di una chiesa cattolica dopo l’ascesa al potere dei talebani. Padre Giovanni Scalese, sacerdote barnabita e Superiore della Missio sui iuris in Afghanistan — presente nel Paese dal 1921 — è stato costretto a lasciare Kabul e rientrare in Italia il 26 agosto 2021. In un’intervista rilasciata nel maggio 2024, padre Scalese — che per sette anni era stato l’unico sacerdote cattolico residente nel Paese — ha espresso frustrazione per la mancanza di attenzione internazionale verso l’Afghanistan, sollecitando le organizzazioni internazionali a riprendere gli sforzi a favore della popolazione bisognosa[74].
Una fonte di grave preoccupazione per i cristiani afghani rifugiati in Pakistan è rappresentata dal Piano di rimpatrio degli stranieri illegali, introdotto dal governo pachistano nell’ottobre 2023. Tale politica, che non prevede tutele specifiche per le minoranze religiose, prende di mira in particolare i cittadini afghani privi di documentazione legale, esponendoli a gravi rischi di espulsione[75].
Nel luglio 2023, un cortometraggio prodotto da Christian Solidarity Worldwide ha documentato la difficile condizione dei cristiani hazara in Pakistan, costretti a vivere nascosti per evitare la deportazione o, nei casi più estremi, il linciaggio a causa della loro fede[76].
Il 7 agosto 2024, Papa Francesco ha incontrato l’Associazione della Comunità Afghana in Italia, esprimendo profondo dolore per le immani sofferenze vissute dalla popolazione afghana. Ha inoltre condannato l’abuso della religione, affermando che la fede non deve mai essere strumentalizzata per giustificare l’odio o la violenza[77].
Secondo alcune organizzazioni della società civile, alla fine del 2021 risiedevano ancora nel Paese circa 150 sikh e indù, rispetto ai 400 presenti all’inizio dell’anno e ai 1.300 registrati nel 2017[78]. Nel 2022, si riteneva che solo un centinaio di appartenenti a queste comunità fossero rimasti in Afghanistan[79].
Anche prima del ritorno al potere del nuovo regime talebano, i templi sikh erano stati oggetto di attacchi, spesso rivendicati dallo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP), come quello avvenuto il 25 marzo 2020 in un gurdwara di Kabul, che provocò la morte di 25 persone[80].
Nell’ottobre 2023, il Comune di Kabul ha annunciato che i talebani avevano nominato un rappresentante per le comunità indù e sikh della capitale, incaricato di tutelarne i diritti, in particolare per quanto riguarda il recupero delle proprietà confiscate[81]. Nell’aprile 2024, un rappresentante talebano ha ribadito l’impegno del regime a garantire la tutela dei diritti di proprietà delle due comunità[82].
Nonostante l’apparente disponibilità delle autorità talebane a favorire il ritorno di sikh e indù, i membri di queste comunità restano riluttanti a rientrare in Afghanistan, temendo nuove persecuzioni. In passato, sotto il governo talebano, avevano infatti subito gravi restrizioni, tra cui limitazioni all’abbigliamento e il divieto di celebrare pubblicamente le proprie festività religiose[83].
Non risultano ebrei ancora presenti in Afghanistan. Entro la fine del XX secolo, quasi l’intera comunità ebraica aveva lasciato il Paese, spinta dal peggioramento delle condizioni di sicurezza e attratta dalla possibilità di emigrare in Israele. Dopo la presa del potere da parte dei talebani, Zebulon Simentov — ritenuto l’ultimo ebreo rimasto in Afghanistan — aveva inizialmente scelto di restare. Tuttavia, nel settembre 2021 ha infine lasciato Kabul, segnando la conclusione della presenza ebraica nel Paese[84].
Non sono disponibili dati ufficiali sulla presenza dei bahá’í in Afghanistan. La comunità vive in relativo anonimato, soprattutto dopo la dichiarazione del 2007 emessa dalla Direzione Generale delle Fatwa e dei Conti della Corte Suprema dell’Afghanistan, che ha definito la fede bahá’í blasfema e i suoi seguaci infedeli[85].
I musulmani uiguri, il cui numero è stimato intorno ai 2.000 individui, costituiscono un altro gruppo a rischio. Considerate le strette relazioni tra i talebani e la Cina — che il nuovo regime ha definito il proprio «principale partner» per la ricostruzione del Paese[86] — gli uiguri temono per la propria sicurezza, sia a causa di possibili persecuzioni interne, sia per il rischio di rimpatrio forzato e conseguente repressione in Cina[87].
Prospettive per la libertà religiosa
In un contesto di quasi totale isolamento e con scarsissime possibilità di ricorso alla legge, le minoranze etniche e religiose in Afghanistan subiscono una doppia oppressione: da un lato, la discriminazione sistemica e la persecuzione da parte dei talebani; dall’altro, le violenze perpetrate dallo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISKP).
L’intensificarsi delle violazioni dei diritti umani da parte delle autorità de facto, come documentato nel presente rapporto — che, per l’entità degli episodi, non può dirsi esaustivo — restituisce un quadro estremamente negativo e allarmante per quanto concerne la libertà religiosa nel Paese.
A ciò si aggiungono le atrocità commesse dall’ISKP, che non sembrano diminuire nonostante gli sforzi dei talebani per contenere il gruppo jihadista. Al contrario, l’ISKP ha modificato la propria strategia, passando dal controllo territoriale a una forma di guerra urbana. Questa trasformazione si traduce in una struttura più fluida e decentralizzata, volta a minare ulteriormente la legittimità dei talebani agli occhi della popolazione[88].
La combinazione di questi fattori lascia presagire prospettive profondamente preoccupanti per la libertà religiosa in Afghanistan, con un peggioramento marcato e persistente delle condizioni per le minoranze.
Fonti